
Autore dell’opera: Richard Rollus
Titolo dell’opera: Super Canticum canticorum
Ambito cronologico: medioevo / XIV secolo
Ambito linguistico: latino
Tipologia trasmissione dell’opera: manoscritta
Tipologia di testimone/i su cui si basa l’edizione: codex optimus
Titolo edizione: Editing Medieval Texts. An Introduction, Using Exemplary Materials Derived from Richard Rolle, ‘Super Canticum’ 4
Curatore edizione: Ralph Hanna
Tipo edizione: edizione parziale
Sede di pubblicazione: Liverpool, Liverpool University Press
Anno di pubblicazione: 2015
Lingua di pubblicazione: inglese
Dati bibliografici completi: Editing Medieval Texts. An Introduction, Using Exemplary Materials Derived from Richard Rolle, ‘Super Canticum’ 4, by Ralph Hanna, Liverpool, Liverpool University Press, 2015 (Exeter Medieval Texts and Studies), pp. 183
Autore recensione/scheda: Rossana Guglielmetti
Tipologia di contributo: recensione
Dati bibliografici della recensione/scheda: OEC
Informazioni aggiuntive: Il volume vorrebbe rappresentare un manuale di avviamento all’ecdotica per principianti, al cui interno l’edizione di un segmento del commentario al Cantico di Richard Rolle funge da esempio pratico. La presente recensione è pubblicata anche, in inglese, nel numero 55/2 (2020) del Mittellateinisches Jahrbuch, pp. 301-312.
Come la premessa dell’autore dichiara, il volume mira a colmare l’assenza di uno strumento di introduzione basilare alla critica del testo, rivolto a principianti. Un’esigenza effettiva per il mondo anglofono, che è l’unico cui la trattazione guarda, come è evidente dall’orizzonte dei riferimenti bibliografici e degli esempi proposti. In accordo con questo obiettivo, la sua struttura coniuga una parte teorica, che fornisca le coordinate fondamentali sui metodi e soprattutto la prassi del lavoro dell’editore, e una parte esemplificativa, ossia un’edizione “di prova” di un capitolo del commento al Cantico dei Cantici di Richard Rolle. L’idea di un simile impianto è senza dubbio ottima, così come apprezzabilissimo è l’intento del volume. Spiace tuttavia constatare che un progetto tanto promettente si traduce in una realizzazione non convincente per molti aspetti, a partire dal metodo operativo stesso cui viene avviato il lettore: sostanzialmente, una prassi pre-lachmanniana il cui fine resta ambiguo, più vicino all’edizione di un testo “rappresentativo” che a una vera ricostruzione critica. Chiariremo questo giudizio ripercorrendo da vicino le tappe della trattazione. Hanna propone anzitutto, in una quindicina di pagine preliminari, una sintesi delle possibili forme di edizione di un testo sperimentate nel tempo (senza una vera e propria storia e teoria dei metodi, ma piuttosto attraverso una carrellata di esempi), mantenendo un atteggiamento sostanzialmente equidistante. La prima a essere presa in esame è la pubblicazione di un singolo testimone, nelle sue diverse forme: la stampa di una copia “qualunque” (“any available copy”, p. 3) tipica dei primi secoli dell’editoria; la scelta del modello che offra il testo più completo; la scelta di un codice che per le sue caratteristiche storiche o la sua antichità rivesta una particolare importanza; il metodo bédieriano del bon manuscrit. Perfino la prima eventualità è a suo avviso “a procedure perfectly justifiable theoretically” (p. 4), poiché replica quella che in fondo era l’esperienza del testo dei lettori e copisti medievali, che a loro volta si imbattevano nelle copie che le circostanze mettevano loro a disposizione e concepivano il testo secondo la testimonianza particolare di quelle copie. Al giorno d’oggi, questa sarebbe una procedura accettabile anche per edizioni destinate a studenti, per le quali un testo “rappresentativo” sarebbe sufficiente. Va rilevato come nella discussione di tutte le eventualità, comunque, si insista sull’esperienza medievale del testo come parametro per la valutazione dei vantaggi e svantaggi dell’opzione: anche laddove il singolo manoscritto scelto ha maggiori chances di rappresentare validamente l’originale (perché più antico, o più completo), la riserva è che non rappresenti, invece, la condizione più frequente per i lettori del tempo; può tuttavia riflettere un “qualified medieval access” (p. 7), quello alla portata di un pubblico più fortunato. Se questo è un avvertimento apprezzabile per i principianti su quale fosse la dimensione del rapporto con i testi al tempo, appare poco opportuno sovrapporre così quella che era la condizione storica di fruizione e quelli che devono essere i nostri obiettivi oggi.
A proposito in particolare della scelta del “best text”, Hanna avverte del problema di fondo che ogni procedura di selezione del testimone migliore presenta: la necessità di una nozione dell’insieme della tradizione per riconoscere quale possa valere come testo normativo. Fermo restando anche che il manoscritto potrà essere preferibile per molte varianti, ma non per tutte, il che qualifica il metodo come selettivo e non selettivo allo stesso tempo. Introdotta la questione della diversità delle testimonianze manoscritte, che possono divergere anche su lezioni di sostanza, il lettore è quindi naturalmente guidato a conoscere l’altra fondamentale forma di edizione, quella che può davvero definirsi critica e che passa per il confronto di più testimoni. Giustamente, l’autore sottolinea come un’eventuale obiezione circa la sua non storicità, a fronte della testimonianza reale data dal singolo manoscritto, sia mal fondata, essendo ogni singola copia solo la rappresentazione di un particolare momento della storia del testo in questione. D’altra parte, lascia l’impressione di attribuire all’edizione critica un livello di rappresentatività non superiore ma solo altrettanto imperfetto, con quell’ambiguità che già rilevavamo.
L’approccio estremamente pratico si risente anche nella definizione delle fasi di lavoro dell’editore, che mescola le operazioni strettamente legate al processo ecdotico, come codificate nella storia del metodo, con operazioni volte invece alla presentazione al lettore. Si hanno così la raccolta dei testimoni, la scelta e trascrizione dell’esemplare di collazione, la collazione, l’esame delle varianti – fin qui le normali tappe del lavoro –, poi la “annotation”, ossia l’aggiunta di un’introduzione filologica, e la sistemazione del materiale per la stampa. Questa prima presentazione sintetica ha elementi di semplificazione rischiosi. Meno rilevante, si prescrive in assoluto la trascrizione dell’esemplare di collazione, che non necessariamente però è un manoscritto e non già un testo disponibile a stampa. Assai più fuorviante, si fa coincidere l’examinatio con la selezione delle varianti da inserire nel testo critico, senza accennare alla possibilità che esista un archetipo e di conseguenza la necessità, in alcuni luoghi, di andare oltre le testimonianze sopravvissute e proporre emendazioni (il concetto affiorerà solo più tardi, e molto corsivamente).
Le fasi del lavoro sono poi descritte in capitoli appositi sulla base del caso esemplare prescelto: il commento ai primi versetti del Cantico dei Cantici che l’eremita inglese Richard Rolle compose nei primi anni Trenta del XIV secolo, e che ebbe un discreto successo anche nella devozione popolare grazie a versioni inglesi. Solo un estratto dell’opera è accessibile nella princeps risalente al 1535 e nelle sue ristampe, così come parziale è l’edizione di Y. Madan del 1950 basata su un singolo manoscritto (‘Le commentaire de Richard Rolle sur les prémiers versets du Cantique des Cantiques’, Mélanges de Science Religieuse 7, 1950, pp. 311-25). Della lunga esposizione Hanna sceglie un segmento, il quarto, dedicato al v. 1,2 Oleum effusum nomen tuum. A questo proposito, è inevitabile osservare che a fini didattici sarebbe stato forse più prudente usare un testo-campione più breve e proporne l’edizione integrale: non è ideale, nella formazione di un editore, trasmettere l’idea che sia corretto valutare la tradizione di un testo sulla base di un frammento soltanto.
Il cap. 1 sulla recensio dei testimoni presenta i principali strumenti per la ricerca, incipitari e repertori, soprattutto nell’ambito particolare dei testi anglosassoni e anglonormanni; per la produzione latina è indicato soltanto A Handlist di Richard Sharpe. Nello specifico caso di Rolle, una già avanzata ricognizione dei testimoni era già stata predisposta da Hope E. Allen nel 1927, per un totale di 14 copie complete o quasi e di 21 copie parziali, cui si aggiungono le versioni vernacolari; di altre tre copie complete dà conto lo stesso Hanna. La lista dei manoscritti (pp. 25-26), va segnalato, ne indica esclusivamente la segnatura (solo la descrizione dei cinque non già trattati nella letteratura precedente è rimandata a un’appendice, pp. 141-160) e l’intera discussione dei rapporti di parentela che sarà affrontata nel cap. 4 prescinde da ogni considerazione persino di datazione e provenienza; il lettore principiante ne ricaverà l’idea che non serva calare in un quadro di coordinate reali la definizione dei legami genealogici tra manoscritti.
Il cap. 2 è dedicato alla scelta dell’esemplare di collazione (“copy-text”), ma presenta fin dal principio un equivoco dalle conseguenze delicate: la scelta del testo di riferimento è riportata non tanto all’esigenza di dare avvio alla collazione da uno strumento provvisorio, ma alla destinazione all’utente stesso dell’edizione (“This represents that primary contact with an audience… one wants to provide one’s readers with a single continuous textual source”, p. 29). La confusione tra l’esemplare di collazione e il testo da presentare al lettore è del resto parte di un più generale equivoco che risulterà più evidente nelle fasi successive: l’idea che il metodo ricostruttivo consista in una correzione dell’esemplare di collazione, concetto che viene ribadito a ogni passo. Al punto di affermare che sarebbe meglio non doverlo correggere troppo, “not to shock the reader by a reading text weighted down with diacritical notations” (p. 32), e anche per il rischio di errore (e il tedio) che ciò comporta per l’editore: ma questo presuppone – e così infatti si presenterà l’edizione di prova di Rolle – che il testo offerto al lettore non sia un vero testo critico, ma una trascrizione del singolo testimone con annotati gli interventi ricavati da altri. Questo del resto è dichiarato alla fine del cap. 4, quando si definisce il testo che si pubblicherà destinato a “facilitate an audience’s access to the author’s words” (p. 95), non a ricostruire un vero testo critico. In una vera edizione ricostruttiva, come è ovvio, qualunque sia la copia di partenza, una volta stabilito il testo critico questo sarà privo di segni diacritici interni (salvo quelli eventualmente legati all’emendatio) e l’apparato conterrà sempre e comunque la stessa quantità di varianti: ma il lettore principiante di questo manuale non ha modo di rendersene conto.
Essendo l’esempio latino, per il caso di Rolle la scelta può basarsi sul solo criterio di completezza, ma il lettore è avvisato che per opere in volgare esiste un problema basilare legato alla veste grafica del testo: il manoscritto da adottare dovrà preferibilmente avvicinarsi agli usi noti o presumibili dell’autore – senza che per questo si cada nell’errore di accreditargli speciale autorevolezza anche per le varianti sostanziali, come giustamente si sottolinea. Il copy-text sarà in particolare il ms. D (Dublin, Trinity College, 153). Sono poi presentate in modo molto elementare le operazioni di trascrizione e sistemazione con punteggiatura e maiuscole. L’editore in erba è avvisato inoltre dell’esistenza del sistema abbreviativo che rende i codici latini più ardui; curiosamente, è del tutto ignorata la nozione dell’esistenza di sistemi di scrittura ben diversi da quello attuale, ossia della lunga e variegata storia delle scritture in uso nel Medioevo, nonché della paleografia stessa come disciplina. Un tratto che rispecchia probabilmente l’abitudine anglosassone di non distinguere formalmente l’insieme di discipline coinvolte negli studi medievali, ma che rimane sorprendente anche nella prospettiva strettamente didattica del volume.
Anche il cap. 3 sulla collazione si apre con l’assunto che essa serva a verificare il “copy-text” ed eventualmente correggerlo, e prosegue con un esempio di annotazione di varianti e loro presentazione in forma di apparato. Si giunge quindi al capitolo più impegnativo, il quarto, relativo all’esame delle varianti. L’autore propone qui una schematizzazione estrema del metodo degli errori, posto sotto il nome di Lachmann e presentato nella sua forma incipiente, priva dei raffinamenti che la pratica successiva gli ha guadagnato; anche in nota, è citata appena la messa a punto di Sebastiano Timpanaro (La genesi del metodo del Lachmann, Firenze 1963, dall’edizione tradotta da Glenn W. Most nel 2005), solo in quanto avverte della corresponsabilità di altri filologi nell’elaborarlo, ma senza precisare che ben altro è accaduto dalla prima elaborazione ottocentesca. È dunque additata come sua debolezza la possibilità che la tradizione conosca fenomeni di poligenesi degli errori e di contaminazione, senza avvertire il lettore che questa consapevolezza è già da lungo tempo parte del metodo stesso. L’eccessivo schematismo con cui è descritto il metodo si fa sentire anche nella descrizione dello stemma (p. 51) come una successione di originale, archetipo definito la “scribal copy from it for distribution”, iparchetipi da cui dipendono le copie esistenti, infine queste ultime; due rami su tre sono inoltre disegnati come una successione tra un subarchetipo perduto e un singolo codice. L’impressione che il lettore è portato a trarne è fuorviante sotto più aspetti: 1. che in ogni tradizione si dia un archetipo; 2. che questo coincida con una copia diretta dell’originale, appositamente tratta per dare inizio alla diffusione del testo (quando esso può collocarsi anche secoli più tardi, ed essere solo la copia che senza particolare intenzione di alcuno si trova a essere a monte della tradizione conservata); 3. che il livello degli iparchetipi non possa mai essere occupato da un testimone conservato, e 4. che anzi anche in rami rappresentati da un singolo manoscritto debba per forza darsi un interposito, di cui non si spiega la ragione.
Va invece apprezzato come Hanna sottolinei la validità dei due obiettivi ai quali Lachmann guardava: il superamento delle due pratiche precedenti di selezione delle varianti sulla base o dell’arbitrio estetico dell’editore, o dell’applicazione di un criterio di maggioranza grossolano. Tuttavia, a proposito del primo Lachmann stesso è accusato di incoerenza, dal momento che la costruzione dello stemma sulla base degli errori presuppone un giudizio e dunque, di nuovo, il gusto dell’editore. Un tema di questo peso, e denso di tanta storia critica – in sostanza, la vexata quaestio del senso di recensere sine interpretatione nel celebre passaggio lachmanniano di introduzione al Novum Testamentum da lui edito nel 1842 – avrebbe richiesto una trattazione ben più profonda; certo non in linea con il taglio di questo volume, è vero, ma necessaria a evitare che le poche righe dedicate al problema facciano così poca giustizia alla lucidità intellettuale di Lachmann, che dei pericoli di “circolarità” del metodo era già consapevole (si veda almeno l’analisi di Giovanni Orlandi in ‘Perché non possiamo non dirci lachmanniani’, Filologia mediolatina 2, 1995, pp. 1-42). Altrettanto eccessivo ed apodittico è il giudizio seguente secondo il quale non esisterebbe alcun metodo obiettivo o logico per affrontare la trasmissione di testi (p. 52), che liquida in pratica il metodo genealogico come ben più fragile di quanto due secoli circa di pratica e riflessione lo abbiano ormai reso. Lo stesso vale per l’assunzione assoluta dell’obiezione di Bédier, per cui uno strumento di lavoro che eviti il giudizio dell’editore sarebbe “the last thing editors actually wanted” (ivi, con una nota che suggerisce che Bédier nella sua ricognizione abbia “scoperto”, in quanto dato di verità dell’intera storia del metodo genealogico, l’esistenza di soli stemmi bipartiti – una deformazione che nemmeno il filologo francese avrebbe sottoscritto). La soluzione, a questo punto, è indicare la vera via da seguire nell’applicazione dell’esperienza e nella capacità di giudizio dell’editore, tornando alla fiducia di Richard Bentley (1662-1742) nella ratio e nella forza cogente delle varianti migliori nel contesto. Senza le “logical divagations” (p. 53) del metodo lachmanniano, questo porterebbe comunque ad avere i dati necessari per costruire uno stemma, salvo che esso finisce coll’essere conseguenza, e non strumento operativo e preliminare, delle scelte già operate nella ricostruzione del testo. Non è facile, qui, misurare quanto l’affermazione forzi il contenuto pratico del metodo stesso che Hanna propone, che almeno in linea teorica non sembra escludere il ricorso allo stemma anche a fini ecdotici oltre che di descrizione storica, o quanto invece esprima un convinto rigetto della procedura neo-lachmanniana a favore di un sostanziale eclettismo guidato dal giudizio dell’editore. La prassi descritta nel seguito, tuttavia, permette di capire che vale la seconda interpretazione: non è mai lo stemma a guidare la ricostruzione del testo edito, ma la valutazione caso per caso e, perfino, quello stesso criterio di maggioranza di cui poco prima si salutava con favore il superamento. A riprova, manca del tutto l’esplicitazione di un concetto cardinale per il metodo genealogico, quello del valore del testimone in sé in base alla sua posizione, di contro al valore delle singole varianti quale che ne sia il portatore.
Il seguito del capitolo, che passa ad affrontare l’esempio di Rolle, si apre purtroppo con un’altra argomentazione destinata a disorientare un principiante: si afferma il rapporto di antigrafo e descriptus dei mss. H (London, BL, Harley 5235) e J (Cambridge, Jesus College, Q.D.4) sulla base del fatto che condividono le stesse varianti rispetto all’esemplare di collazione. Evidentemente, o si chiarisce che in tutti quei passi quest’ultimo va considerato portatore del testo esatto e HJ di errori di rango distintivo, o si fa cadere il lettore nel più elementare equivoco metodologico. Ma questo non è solo il caso di questo particolare punto, è il procedimento che si seguirà nell’intero percorso: come ribadito oltre (p. 88), D verrà usato “as a norm to arrange the variant evidence”, comprese tutte quelle varianti puramente adiafore che andrebbero in prima istanza accantonate e non permettono alcun “arrangement” dei dati. Quello che dovrebbe essere solo l’esemplare di collazione assurge così pericolosamente a norma, salvo totale inaccettabilità delle sue lezioni, come verrà chiarito al termine del capitolo.
Vengono quindi presentate le varianti riscontrate (appunto, dal punto di vista del copy-text), ma suddivise per tipologie e non per costellazioni di testimoni coinvolti. Questo approccio ha certamente il fine didattico di costituire un piccolo manuale pratico di fenomenologia della copia e ha una sua efficacia in questo senso, anche grazie alle diffuse e puntuali spiegazioni sui meccanismi di genesi delle principali sviste di copia. In coerenza con l’approccio non lachmanniano dell’autore, non si dà inizio al percorso con i “fondamentali” procedurali, ossia la necessità di sceverare gli errori di valenza congiuntiva e separativa da quelli triviali e reversibili, che in questi elenchi si mescolano invece indistintamente, quindi di raccogliere gli errori per costellazioni, così da usarli per stabilire le parentele tra manoscritti. Al primo di questi concetti, almeno parzialmente, si arriva poi, con un avvertimento sulla facilità di poligenesi delle lacune per saut du même au même, delle duplicazioni indotte da certi contesti o delle trasposizioni, mentre al tema della reversibilità degli errori è dedicata appena una nota (la 95 a p. 173, che accusa peraltro Lachmann di non aver neppure preso in considerazione tale possibilità, con una di quelle semplificazioni azzardate che abbiamo più volte rilevato). Ciò non impedisce però che quando si giunge a ragionare delle coincidenze per gruppi di manoscritti anche le sviste potenzialmente poligenetiche entrino nel conto delle costellazioni rilevate: può darsi che questo non infici l’esito dell’esame nel caso specifico di Rolle, ma nuoce certo allo scopo primario di insegnare un metodo di lavoro. L’obiettivo attribuito a questa prima rassegna è anche quello di evidenziare il grado di inaffidabilità dei singoli scribi, benché con qualche ambiguità: più di una volta è dichiarato che l’isolamento di un codice nel riportare una variante è di per sé un segnale quasi certo di erroneità della variante in questione, un’assunzione assai pericolosa prima di aver assegnato ogni codice al suo posto in uno stemma.
Alcune considerazioni già avanzate sulle concordanze in errore tra più codici sono infine riprese e precisate usando la categoria delle trasposizioni, così da arrivare – con un percorso non proprio lineare e trasparente – al disegno di uno stemma (p. 75). Per la verità il quadro emerso dalle trasposizioni, com’è naturale trattandosi di lezioni in gran parte non significative o perché adiafore o perché non solidamente congiuntive, vede costellazioni contraddittorie, dalle quali non è chiaro come emerga e si giustifichi lo stemma stesso. Questo vede una bipartizione tra una famiglia α e una famiglia β, la prima formata dai codici D (l’esemplare di collazione), V (London, BL, Cotton Vesp. E.i) e S (Oxford, St. John’s College, 127) e dalla coppia BC (Oxford, Bodleian Library, Bodl. 861 e Corpus Christi College, 193), uniti sotto un antigrafo γ. Quest’ultima asserzione dipende da una condivisione di errori e – si dice – dalla scarsità di deviazioni individuali: tuttavia, non è discussa la possibilità che tra loro intercorra piuttosto un rapporto di filiazione. Ma il punto davvero critico è l’esistenza stessa di α, basata non su errori comuni, ma solo sulla parentela sotto β di tutti gli altri testimoni! Paradossalmente, scorrendo l’apparato del testo edito si possono riscontrare indizi che D, V, S e BC debbano davvero essere riuniti in una famiglia, ma essi vengono da lezioni che l’editore ha invece valutato esatte (vi ritorneremo nell’ultima parte di questa recensione). Ma a tale conclusione non si arriva certo dai dati messi in campo da Hanna. Bisogna constatare che ci troviamo qui di fronte a uno dei più classici incidenti metodologici in cui più di un filologo è caduto, l’indebita bipartizione tra una famiglia reale X e tutto ciò che semplicemente è “non-X” (ne parlava già Timpanaro in Stemmi bipartiti e perturbazione della tradizione manoscritta, appendice all’edizione ampliata del volume La genesi cit., Padova 1981). Inutile sottolineare le conseguenze in sede di selectio di un’assunzione del genere. Del resto, l’autore non propone neppure il tema della selectio: le varianti sono via via discusse nell’atto stesso della presentazione per tipologie e senza riferimento al contesto stemmatico, come si accennava prima, al di fuori di quelle che sarebbero normalmente le tappe di un metodo genealogico. Quanto a β, la famiglia viene a grandi linee divisa tra un gruppo δ e un gruppo ε, ciascuno con più rappresentanti i cui rapporti più specifici non sono precisati, più il singolo manoscritto P (New York, Pierpont Morgan Library, M.872), probabile esito però di una contaminazione tra δ e ε (benché il disegno non lo evidenzi in alcun modo, facendone un terzo sottoramo alla pari di quelli). Sconcertante è ancora la discussione di un’ulteriore trasposizione che vede D (r. 174) opposto all’intera schiera degli altri testimoni: se ne conclude che D “probably errs”, quando la configurazione stessa dello stemma rende certa la sua erroneità; e anche che D andrà perciò corretto, ma solo se si sceglie di dare un’edizione che renda conto anche delle varianti di trasposizione, che a volte gli editori possono ritenere irrilevanti e non segnalare. Diversamente, bisogna arguire, la lezione senza dubbio sbagliata di D avrebbe diritto di rimanere a testo perché non fa in fondo molta differenza rispetto a quella esatta.
Dopo questa cursoria definizione dello stemma, riprende il percorso basato sulle tipologie di innovazione, a conferma di come il tutto si configuri molto più come un manuale di fenomenologia della copia volto a offrire al lettore un esempio di applicazione del giudizio eclettico dell’editore, che come un avvio al ragionamento su base stemmatica. Ciò si evidenzia pienamente alla fine del capitolo, quando si affronta la questione di come trattare il testo di D: nessun dubbio sul depurarlo dai lapsus calami individuali patenti; per i molti altri casi in cui si oppongono nella tradizione varianti vere e proprie, di D isolato contro tutti o di D in accordo con altri testimoni contro i rimanenti, si propone invece una discussione caso per caso, del tutto avulsa dal quadro genealogico abbozzato. In sostanza, D sarà emendato solo quando la sua lezione è giudicata in sé inferiore, rispettato in caso di adiafore. E il giudizio dichiaratamente poggia spesso su un criterio di maggioranza, dimenticando ogni considerazione di posizione reciproca dei manoscritti coinvolti.
Infine compare un tema fin qui assente, quello della presenza di passi corrotti nell’intera tradizone e della necessità di emendarli, ma non ci si sofferma su quali siano questi passi né su criteri generali per praticare buone congetture. Il capitolo si chiude con le indicazioni su come presentare il testo, in particolare le variazioni apportate all’esemplare di collazione: per lettere o parole assenti in D e integrate si adotteranno parentesi quadre; per indicare invece l’esclusione di lettere un segno + precederà la parola (si intende ad esempio solitudine corretto rispetto a solitudinem). Entrambe le scelte si potrebbero discutere. Nel primo caso, si usa un indicatore diacritico che normalmente segnala l’integrazione congetturale, mentre si tratta qui di lezioni ricavate da altri testimoni. Peggio, nel secondo è applicato il concetto di “omission” (p. 96) per descrivere un intervento che è di fatto una giusta eliminazione, concetto rincarato nella nota 113 che spiega la scelta del simbolo come una semplificazione della crux o obelos, in quanto segnale di una lacuna nel testo! Inoltre, l’unico caso di trasposizione di D corretta a testo è indicato ponendo tra quadre la prima lettera del sintagma, perché il lettore interessato sia spinto a guardare l’apparato, creando confusione con il normale uso del segno come indicatore di integrazione.
Il capitolo 5 affronta il compito dell’editore di dotare il testo di note di commento e di introduzione, sempre sulla base dell’esempio di Rolle. Qui, finalmente, entra in campo la dimensione del confronto con le fonti, che avrebbe forse meritato di essere almeno evocata in fase di esame delle varianti (se non altro per la possibilità teorica che il riscontro sulla fonte sia dirimente nel giudizio tra lezioni concorrenti, ammesso che questo non si avveri nel caso specifico).
Giunge quindi l’edizione, accompagnata da un apparato – chiamato collation, con infelice ambiguità – e da traduzione inglese. Dal punto di vista ortografico Hanna fa una scelta estremamente conservativa, comprensibile nell’ambito delle edizioni di opere volgari ma non ideale per un testo latino; sono riprodotte perfino grafie tipicamente legate alle varianti morfologiche posizionali delle lettere nella scrittura gotica, quali ij per doppia i e v per u iniziale di parola (in alternanza con u, evidentemente in base al casuale comportamento del testimone-base); così come è conservata una grafia che immaginiamo propria di D, persepissem per percepissem a r. 278. Dal punto di vista testuale, rileviamo infine alcuni passi nei quali ci sembra che la variante accolta a testo o opzioni di punteggiatura non colgano nel segno, oltre ad alcune anomalie nell’apparato.
– r. 13, apparato – Una voce segnala che est è posposto a solus in cinque testimoni, ma dalla voce precedente si ricava che lo stesso avviene anche in altri due.
– rr. 18-19 Hunc igitur ecclesia, intuens et tante benignitatis misericordiam admirans, cum immenso gaudio dicit:… – Hunc è evidentemente oggetto di intuens, ma privo di ogni legame con la principale: non ha dunque ragion d’essere la virgola dopo ecclesia.
– r. 96, apparato – Non compare una variante che l’editore menzionava (p. 90) nel discutere un altro luogo della frase: scribetur di alcuni codici per scribit.
– rr. 100-102 Igitur O Ihesu pie, est oleum effusum nomen tuum ut in nobis effundatur. Et sic nomen ymaginis et similitudinis tue in cordibus nostris imprimat[ur], quatinus… – L’apparato riporta per effundatur di r. 100 una variante non discussa prima, infundatur, presente in più testimoni di rami diversi dello stemma; prenderemmo almeno in considerazione l’ipotesi che si tratti del testo autentico. Da un lato, è vero che la preposizione in poco prima (in nobis) poteva esercitare un effetto attrattivo, dall’altro però il lemma poteva fare altrettanto rispetto a un’eventuale variazione del prefisso verbale da parte dell’autore nell’esegesi, il che rende forse infundatur la lezione che aveva più probabilità di corrompersi nell’altra. Al di là della scelta finale, il caso avrebbe meritato attenzione. Più rilevante, la scelta di portare a passivo imprimat, discussa a p. 90, ci appare non del tutto motivata. La tradizione si divide tra imprimat di D con altri cinque manoscritti, di rami diversi, imprimas di altri quattro e imprimetur del solo C, ritenuto buona congettura contro un errore d’archetipo o comunque diffuso di perdita dell’abbreviazione per –ur. Ma l’apparente necessità di un passivo potrebbe essere creata artificialmente da una punteggiatura impropria: il punto isola la seconda frase dalla prima, facendo di nomen ymaginis et similitudinis un soggetto bisognoso di verbo passivo o almeno riflessivo; ma se lo si eliminasse, il verbo diverrebbe coordinato a effundatur, con soggetto ancora nomen tuum del lemma e oggetto nomen ymaginis et similitudinis; una possibilità almeno da vagliare, in quanto permette di conservare il testo tràdito.
– rr. 116-118 Imples in opere quod uocaris in nomine. Vere saluas hominem tu quem vocamus saluatorem – Come spiega sopra (pp. 90-91), l’editore accoglie la lezione minoritaria imples di DBL (L = Oxford, Bodleian Library, Laud. misc. 528) contro implens degli altri testimoni pensando a una coppia di frasi parallele. Di nuovo, tuttavia, andrebbe considerata la possibilità che il punto che le separa non colga la reale struttura: implens participio si giustifica perfettamente se la prima frase è una subordinata della seconda (“Compiendo nei fatti il senso del tuo nome, davvero salvi l’uomo tu che chiamiamo salvatore”); una struttura forse preferibile dal punto di vista stilistico, poiché evita una sgraziata spezzatura. Va peraltro osservato che il manuale non fa mai riferimento nel discutere le varianti a un criterio che sarebbe qui d’aiuto, ossia l’usus scribendi, che potrebbe sostenere l’una o l’altra scelta.
– r. 160 Hostis cadet, tu stabis; hostis debilitatur, tu fortificaberis – Il verbo debilitatur al presente è lezione di D e B, contro debilitabitur degli altri; il passo è contato (pp. 69-70) tra le “echoic additions”, ossia errori dovuti a persistenza o anticipazione, quale sarebbe l’aggiunta delle lettere che portano il verbo da presente a futuro per influsso del contesto. In realtà, ci sembra che proprio la forza del contesto deponga a favore dell’autenticità di debilitabitur: non si vede perché fra tre futuri dovrebbe esservi quest’unica forma al presente (senza contare, come sempre, la debolezza della posizione stemmatica di debilitatur, ammesso che valga lo stemma).
– r. 169, apparato – I testimoni presentano un’ampia varietà di innovazioni di posizione e di declinazione dei termini della frase; l’apparato ne dà però conto in parte dando l’intera stringa coinvolta in alcuni dei codici, in parte riportando varianti su singole parole di altri, anche quando queste coincidono con varianti già presenti nei primi. Ne risulta una certa difficoltà nel capire lo stato complessivo della tradizione in questo punto.
– rr. 174-175 … qui nomen Ihesu incessanter cupit adamare? Amat autem et amare desiderat… – I testimoni assegnati alla famiglia β leggono amare in luogo di adamare, lezione di quelli assegnati ad α. Il passo avrebbe meritato di essere discusso: a favore della variante accolta si può forse invocare il suo status di difficilior, in un contesto in cui il verbo non prefissato compare ben sei volte in poche righe; d’altro canto proprio alla luce di tale contesto si può dubitare che questa variazione sia legittima. Notiamo anche che poco oltre, alla r. 181, compare un’espressione parallela nella forma iugiter amare cupit. La questione assume una forte rilevanza nella prospettiva della definizione dello stemma, perché se qui si giudicasse errata la forma adamare avremmo un indizio congiuntivo a favore della reale esistenza di α, fin qui indimostrata, come si diceva; un indizio da unire ai due che stiamo per affrontare.
– rr. 233-235 Omnes angeli… replebuntur, quando ille totus cetus vester reprobus… dampnatur – Di nuovo, si oppongono il verbo al presente dampnatur, proprio dei manoscritti posti nella famiglia α, e il futuro damnabitur, lezione di β; il passo era citato (pp. 82-83) come esempio di intervento di “a number of scribes” per regolarizzare il tempo verbale. Ora, al di là della considerazione che non c’è bisogno di pensare a interventi multipli se è vero che tutti i codici coinvolti sono membri di β, ciò che manca è una giustificazione del perché il presente possa essere accettabile; sembra che implicitamente valga una petizione di principio a favore di D o di α cui è aggregato. Piuttosto, questo potrebbe valere come errore congiuntivo, in quanto non favorito dal contesto, che dimostri l’effettiva esistenza di α.
– rr. 236-238 …quoniam ecce vobis merces redd[e]tur. Infernale tormentum ab origine mundi vobis preparatur – Il verbo finale è lezione dei codici di α, dove quelli di β si dividono tra paratum e preparatum. Ancora una volta ci permettiamo di suggerire la possibilità che la lezione migliore sia quella scartata dall’editore, la forma al participio: con la punteggiatura imposta è ovvio che un participio diventi insostenibile, ma se si legge il testo senza il punto che separa in due frasi emerge un discorso del tutto conguente (“ecco vi verrà reso come ricompensa il tormento infernale preparato per voi dall’origine del mondo”). Come già osservato in un caso precedente, questa ricostruzione avrebbe anche il vantaggio stilistico di evitare una frattura tra due frasi giustapposte senza connettivi. Se vale questa proposta e la lezione autentica è quella di β, per la terza volta avremmo un potenziale errore congiuntivo a unire i testimoni della presunta famiglia α. Come i precedenti, non è errore di particolare forza separativa e non è certo indiscutibile: ma mettere a fuoco questo insieme di indizi avrebbe dato maggior forza a quella che, come si è visto, appare la maggior forzatura della ricostruzione genealogica.
In conclusione, non resta che ribadire che le intenzioni del volume e l’idea che lo struttura, quella di una stretta unità fra insegnamento teorico e applicativo, sono le più apprezzabili. Temiamo tuttavia che l’esigenza di disporre di un solido manuale di avviamento all’ecdotica per studenti anglofoni attenda ancora di essere soddisfatta.
Rossana Guglielmetti