Autore dell’opera: Giovanni Scoto Eriugena
Titolo dell’opera: testo 1: Carmina; testo 2: De imagine
Ambito cronologico: Medioevo / secolo IX
Ambito linguistico: latino
Tipo trasmissione dell’opera: testo 1-2: manoscritta di estensione limitata (senza autografi)
Tipologia di testimone/i su cui si basa l’edizione: manoscritti
Titolo edizione: testo 1: Iohannis Scotti Eriugenae Carmina testo 2: Iohannis Scotti Eriugenae De imagine
Curatore edizione: testo 1: Michael W. Herren (con la collaborazione di Andrew Dunning); testo 2: Giovanni Mandolino (con la collaborazione di Chiara O. Tommasi)
Tipo edizione*: testo 1-2: edizione critica ricostruttiva
Sede di pubblicazione: Turnhout, Brepols
Anno di pubblicazione: 2020
Lingua di pubblicazione: inglese
Dati bibliografici completi: Iohannis Scotti Eriugenae Carmina, edidit Michael W. Herren adiuvante Andrew Dunning; De imagine, cura et studio Giovanni Mandolino, introductionem criticam praemisit Chiara O. Tommasi, Turnhout, Brepols, 2020 (Corpus christianorum. Continuatio mediaevalis 167)
Autore recensione/scheda: Paolo Chiesa
Tipologia di contributo: recensione
Dati bibliografici della recensione/scheda: recensione già apparsa in “Filologia mediolatina” 28 (2021)
Informazioni aggiuntive: Nel presente volume si trovano due diverse edizioni: quella del corpus poetico di Giovanni Scoto Eriugena, e quella del De imagine, cioè della traduzione latina eseguita da Giovanni del De opificio hominis (Περὶ κατασκευῆς ἀνθρώπου) di Gregorio di Nissa
Il volume si inquadra in quelli che il Corpus christianorum chiama Opera fere omnia di Giovanni Scoto, ossia nella sezione della collana che, senza continuità temporale e con un sottotitolo librario poco evidenziato, pubblica ormai da molto tempo le opere di questo autore. Nel presente volume si trovano due diverse edizioni: quella del corpus poetico di Giovanni, e quella del De imagine, cioè della traduzione latina eseguita da Giovanni del De opificio hominis (Περὶ κατασκευῆς ἀνθρώπου) di Gregorio di Nissa. Le due edizioni non sono fra loro correlate, e presentano per altro problematiche quanto mai diverse; verranno perciò qui trattate separatamente.
L’edizione dei Carmina, a cura di Michael W. Herren (con la collaborazione di Andrew Dunning per gli aggiornamenti), è una ripresa di quella già pubblicata dallo stesso Herren nel 1993 negli Scriptores Latini Hiberniae. Rispetto all’edizione precedente manca la traduzione inglese – non prevista nella collana di pubblicazione –; è opportunamente aggiornata la bibliografia e corretto qualche errore (viene per esempio riconosciuto che l’editio princeps dei carmina, o almeno di parecchi di essi, è quella secentesca di James Ussher); è aggiunto un breve Addendum (pp. lxxvii-lxxix) con alcune novità specifiche. Nella sostanza però l’impianto resta il medesimo: una presentazione della vita e delle opere di Giovanni Scoto (pp. ix-xxii; questa parte, per quanto originariamente concepita in funzione dei soli Carmina, all’interno del volume complessivo assume la valenza di un’introduzione generale all’autore); un descrizione della tradizione manoscritta; una discussione sull’autenticità dei singoli testi, ove problematica; un commento sugli aspetti letterari e linguistici dei componimenti, che valorizza in particolare l’uso del greco, che è la caratteristica peculiare della poesia di Giovanni.
La documentazione relativa ai carmina non registra particolari novità rispetto al 1993, e medesima è l’interpretazione che ne viene data. Herren individua un corpus costituito da una quarantina di componimenti in totale; una parte di essi sarebbe stato raccolto, già all’epoca dell’autore, in una collezione che l’editore designa con Ω, che avrebbe compreso 19 carmina e che in questa sua configurazione originaria non si sarebbe conservato. In effetti, nei manoscritti che possediamo oggi figurano solo delle aggregazioni in corpora più piccoli, mai fra loro sovrapponibili. Il corpus più consistente (R, 10 componimenti in tutto), e apparentemente più organico, è quello conservato in alcuni fogli di due codici Reginensi (lat. 1587, ff. 57r-64v, e lat. 1709, ff. 16v-18r, per i quali è stata proposta una provenienza da Fleury); a giudizio di Herren, le sezioni di questi due manoscritti contenenti i carmina di Giovanni erano inizialmente unite, tanto che esse dovrebbero essere considerate come parti successive di una medesima collezione. Una difficoltà a questa ipotesi è data dal fatto che le due sezioni non sono in continuità scrittoria l’una con l’altra: i carmina del Reg. lat. 1709 sono preceduti, nel medesimo foglio e nel precedente, dalla trascrizione di materiali diversi, ossia una serie di definizioni mistiche (fictura, veritas, mysterium, sacramentum) e una parte dell’Epistola 55 di Girolamo); Herren para l’obiezione ricordando i «numerous cases in medieval manuscripts of the interruption of a continuous text or collection by extraneous material», ma questa spiegazione appare troppo generica e poco convincente per una raccolta che si stende su pochissime pagine, e per la quale perciò un’interruzione libraria risulta più invasiva. Un’altra e ancor meno decifrabile raccolta è quella approntata da Martino Scoto, conservata in alcuni fogli del codice Laon 444 (L: ff. 294v-298r), a sua volta non riconducibile a un’unità interna (Herren, sulla scorta di Traube, distingue una parte LI e una parte LII, e differenzia ulteriormente in due sezioni questa seconda parte): la selezione del materiale (che interessa in tutto 7 componimenti) privilegia i versi e le parole greche, spesso glossate, che sono in parte ricavate da poesie presenti anche nei due codici Reginensi, in parte attestati soltanto qui. Altri due carmina sono contenuti in un’ulteriore piccola raccolta chiamata V, suddivisa fra i codici Vat. Reg. lat. 1625 (ff. 65r-66v) e Par. lat. 10307 (f. 246v), che deriverebbe il suo materiale in parte da L, e per suo tramite da Ω, in parte da una raccolta diversa di componimenti di dotti irlandesi. I carmina fin qui citati sono più o meno esplicitamente attribuiti a Giovanni dalla tradizione, o sono riconducibili a lui con sicurezza; a questi componimenti di autenticità certa si aggiungono le dediche in versi che precedono le traduzioni di Giovanni delle opere dello pseudo-Dionigi e degli Ambigua di Massimo il Confessore, che circolano in unione con tali opere, e il poemetto Aulae sidereae, conservato nel solo codice Cambridge, Corpus Christi College, 223, rimasto fuori dalla raccolta Ω, a giudizio di Herren, perché scritto in epoca successiva al suo confezionamento. Completa il corpus un gruppo di altri 17 scritti, conservati in codici diversi e di argomento e tono disparato, che nell’edizione sono collocati in appendice: si tratta di componimenti per i quali l’attribuzione a Giovanni non è corroborata da dichiarazioni esplicite della tradizione, ma che nella maggior parte dei casi, è secondo Herren plausibile.
Rispetto all’edizione del 1993, le principali novità testuali riguardano l’inserimento, in coda al carme 8 (l’ultimo di quelli riportati nel Vat. Reg. 1587), di due versi in greco che si trovano isolati nella silloge di Laon, che andrebbero collocati in questo punto perché mos erat Iohannis… uersus graecos qui preces pro uita et salute Karolis [sic] regis continent ad finem carminis ponere; e l’aggiunta (come diciassettesimo e ultimo testo dell’Appendice) di una lista di Graeca ad uersus, cioè di termini greci per lo più presenti nei carmina di Giovanni, ciascuno accompagnato da un interpretamentum latino; questa lista è contenuta nel f. 294v del codice di Laon, cioè all’inizio della sezione ‘martiniana’. A parte queste due novità – e i consistenti aggiornamenti bibliografici in nota, che però solo raramente hanno conseguenze sull’impianto argomentativo generale – l’edizione è una riproduzione molto fedele di quella precedente, talvolta fin troppo fedele: a p. xlix l’editore dice di avere «recently» potuto leggere parti di due emistichi del codice Par. lat. 10307, ma tale avverbio, giustificato nel 1993, non lo è più nel 2020; e la modifica di prospettiva affidato all’Addendum, nel quale il carme 1 dell’Appendice è ritenuto «almost certainly spurious», avrebbe dovuto avere qualche riflesso nella parte introduttiva, dove la posizione appare più cauta(«there is no basis for including the verses in the main collection, but it does not seem possible to reject them absolutely»). Nel complesso perciò un aggiornamento sicuramente utile, ma che non offre novità rivoluzionarie.
Il problema metodologico posto dai carmina di Giovanni è quello della costituzione del corpus. La presunta collezione originaria Ω appare in realtà piuttosto evanescente, dato che – come si è detto – i manoscritti che le darebbero testimonianza non sono sovrapponibili: gli unici elementi comuni a più di una parte sono sostanzialmente dei vocaboli greci, per lo più estrapolati. In una situazione così vaga, è difficile farsi un’opinione sull’esatta consistenza di Ω, che rischia di essere una chimera; difficile anche pronunciarsi sui possibili tempi, ragioni e luoghi di composizione, anche se il collegamento con Laon e con Martino appare l’aggancio più probabile, o quanto meno l’unico che trovi riscontro nella tradizione. Dal punto di vista storico e filologico, il fatto che sia esistito o meno un corpus dei carmina di Giovanni, forse impostato come tale dall’autore, non è irrilevante: l’alternativa – quella che le poesie di Giovanni siano dei componimenti occasionali, ma mai considerati dall’autore come un insieme organico – indurrebbe a una valutazione diversa sull’autocoscienza dello scrittore verso tali testi e sulla loro funzione complessiva.
Il secondo testo pubblicato nel volume, il De imagine, offre invece un’edizione critica originale, curata da Giovanni Mandolino con controllo e revisione di Chiara Ombretta Tommasi, che firma l’introduzione. In precedenza il testo era stato pubblicato da Maïeul Cappuyns (1965), che aveva fornito la trascrizione dell’unico codice al tempo conosciuto (Bamberg, Staatsbibliothek, Misc. Patr. 78 [B.IV.13]), corredata di un apparato per le parti dell’opera che sono riprese dallo stesso Giovanni nel Periphyseon; la nuova edizione utilizza invece anche su un secondo testimone, ampio anche se incompleto (Parigino n.a.l. 2664, proveniente da Cluny, identificato nel 1980), e presenta un ricco apparato che dà conto della tradizione diretta e indiretta. Quest’ultima è costituita, oltre che da altre opere dello stesso Giovanni, dal De natura corporis et animae di Guglielmo di Saint-Therry, grazie alla testimonianza del quale è possibile integrare una lacuna che ricorre verso la fine dell’opera nei manoscritti diretti. Un’altra lacuna, in corrispondenza di quello che nel modello greco è il cap. XXII, potrebbe essere in parte integrata grazie agli estratti latini di questo capitolo che si incontrano in un florilegio teologico (mss. Vaticano Reg. lat. 195 e Berlinese lat. qu. 690); non si può tuttavia avere certezza che tali estratti, non sovrapponibili al resto dell’opera e circolanti in forma anonima, derivino effettivamente dalla versione eriugeniana.
Il problema metodologico posto dall’edizione del De imagine è quello di una traduzione in molti punti ‘sbagliata’, di un testo perciò per il quale viene a mancare la possibilità di applicare un principio di correttezza come criterio per le scelte testuali. Il modello di partenza, il De opificio hominis di Gregorio nella sua forma greca, era un testo difficile, ed è spesso evidente che Giovanni non lo comprende appieno; il letteralismo della versione, anche se può rivendicare illustri modelli metodologici, sembra dipendere anche da una scorciatoia ermeneutica di comprensione, come se nella mente del traduttore fosse più agevole penetrare l’oscurità del testo greco riproducendolo parola per parola in latino. Come dicono esplicitamente gli editori, «il De imagine si leggerebbe senz’altro più agevolmente affiancato al testo greco dell’opera»; di questa per altro «non è ad oggi disponibile un testo critico aggiornato». Di qui la frequente citazione in apparato dei passi greci di partenza, che permettono al lettore di comprendere il senso dell’opera di Gregorio e di confrontarlo con ciò che ne ricavava Giovanni; a tal fine viene spesso utilizzato un manoscritto greco (Parigino Coisl. 235) che, per quanto non possa essere identificato come l’esemplare a disposizione di Giovanni, appare a questo testualmente vicino. Delle difficoltà poste dal testo, gli editori citano come esempio emblematico il primo passo dell’opera (anche in virtù del suo statuto incipitario), che nasce da una lettura dell’espressione greca viziata da un coacervo di errori e produce in latino un senso completamente diverso (se di senso si può parlare); ma vicende analoghe ricorrono in continuazione. In questi casi, giustamente gli editori hanno resistito alla tentazione di correggere un testo che, per quanto contenutisticamente sbagliato e linguisticamente incomprensibile, rappresenta pur sempre un dettato d’autore; la presenza in apparato del modello greco permette al lettore di farsi un’idea della situazione e di comprendere la genesi degli errori.
In apparenza, il De imagine non rende un buon servigio alla fama di Giovanni come grecista e traduttore; una fama che invece risulta molto più giustificata dalla lettura dei Carmina, nella prima parte del volume, e dalle valutazioni letterarie che ne dà Herren. Bisogna tener conto però del fatto che il De imagine era stato concepito da Giovanni per un uso personale, come dimostra il fatto che è privo di una lettera di dedica; l’autore non aveva dunque particolari necessità di revisionare o perfezionare il testo, che probabilmente non si prevedeva dovesse uscire dalla sua biblioteca. (Se si trattasse di uno scritto di un autore contemporaneo, e non di un documento storico di letteratura, ci si potrebbe forse porre lo scrupolo etico di pubblicare un testo che l’autore non aveva destinato alla pubblicazione). Si trattava di una traduzione di servizio, che aveva lo scopo di fornire materiale al più impegnativo trattato che Giovanni stava scrivendo, cioè il Periphyseon, che al De opificio hominis di Gregorio di Nissa deve «gran parte della sua antropologia filosofica» (p. cxxxix); sui motivi dell’interesse provato da Giovanni per l’opera gregoriana gli editori formulano suggestive ipotesi. Data questa sua natura – e data l’esistenza di una precedente traduzione di Dionigi il Piccolo, evidentemente ignota a Giovanni, compiuta «con assai più compiuta padronanza della lingua greca» –, non sorprende che il De imagine abbia avuto limitatissima circolazione; l’origine della tradizione va cercata in ambienti e luoghi vicini all’autore (Laon, Soissons), e si può ragionevolmente ipotizzare che l’opera si sia conservata non tanto per un suo particolare interesse, ma perché copiata nell’ambito di raccolte di libri eriugeniani (come sono attestate nelle biblioteche di Bamberga e di Cluny).
